L’età Giolittiana – Sintesi per fissare i punti chiave

La crisi autoritaria che ha colpito l’Italia negli ultimi anni del XIX secolo è stata superata grazie all’azione dei governi di Giovanni Giolitti tra il 1903 e il 1914. Questo periodo storico, noto come “L’età giolittiana, è stato fondamentale non solo per la risoluzione della crisi, ma anche per l’avvio dell’industrializzazione del Paese.

L'età giolittiana

I governi guidati da Giolitti, che hanno seguito il mandato del 1892-93, sono stati caratterizzati da una svolta liberale e da un’apertura verso le esigenze delle classi sociali più deboli. Tuttavia, è importante sottolineare che la gestione delle elezioni durante questi governi è stata contraddistinta da una totale mancanza di scrupoli.

Durante l’età giolittiana, sono stati apportati importanti cambiamenti istituzionali e si è adottato un atteggiamento meno repressivo nei confronti delle opposizioni politiche. L’obiettivo era quello di coinvolgere le diverse fazioni politiche nella vita pubblica al fine di ampliare la base sociale dello Stato.

Gli ultimi anni dell’età giolittiana sono stati segnati dal conflitto per la conquista della Libia e dall’introduzione del suffragio universale maschile. Questi eventi hanno avuto un impatto significativo sulla politica italiana e hanno contribuito a definire il contesto storico di quel periodo.

In conclusione, l’azione dei governi di Giovanni Giolitti tra il 1903 e il 1914 ha rappresentato una svolta importante per l’Italia, consentendo di superare la crisi autoritaria e avviare un processo di modernizzazione e apertura politica che ha contribuito allo sviluppo del Paese.

La crisi alla fine del XIX secolo

Negli ultimi cinque anni del XIX secolo, l’Italia attraversò un periodo caratterizzato da una profonda crisi sociale e politica. Nel marzo del 1896, Antonio Di Rudinì fu incaricato di formare un nuovo governo esecutivo. Dopo la sconfitta del corpo di spedizione italiano ad Adua, in Etiopia, e la successiva stipula della pace con il negus Menelik, Di Rudinì cercò di affrontare le tensioni sociali presenti nel Paese.

Tuttavia, nel maggio del 1898, scoppiarono tumulti a Milano in seguito all’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità. Il generale Fiorenzo Bava Beccaris ordinò di aprire il fuoco sulla folla, causando la morte di più di 80 persone. Gli esponenti socialisti Filippo Turati e Leonida Bissolati furono arrestati, insieme al cattolico don Davide Albertario. A causa delle critiche ricevute, Di Rudinì fu costretto a dimettersi e fu sostituito dal generale Luigi Pelloux (1898-1900).

Durante il suo mandato, Pelloux presentò alcune proposte di legge volte a limitare le libertà garantite dallo Statuto Albertino, suscitando però una forte opposizione da parte dell’estrema sinistra. Alle elezioni del giugno 1900, socialisti, radicali e repubblicani conquistarono 95 seggi, sconfessando così la politica di Pelloux. Di conseguenza, il sovrano affidò il governo a Giuseppe Saracco.

Il 29 luglio 1900, re Umberto I fu assassinato a Monza da un anarchico di nome Gaetano Bresci, che voleva vendicare le vittime dei moti di Milano del 1898. Il figlio di Umberto I, Vittorio Emanuele III (1900-1946), salì al trono in seguito a questo tragico evento.

Questo periodo di crisi e cambiamenti segnò una svolta significativa nella storia politica italiana, con conseguenze che avrebbero influenzato gli anni a venire.

Il disegno politico giolittiano

Nel periodo compreso tra l’inizio del XX secolo e lo scoppio della Prima guerra mondiale, il protagonista principale della vita politica italiana fu Giovanni Giolitti. Egli mantenne il potere fino al 1914, con poche interruzioni. Il suo ruolo di statista fu fondamentale nel consolidare lo Stato liberale e nel promuovere riforme sociali che coinvolsero nuovi strati sociali precedentemente esclusi dai grandi processi risorgimentali.

Dopo aver servito come ministro degli interni nel governo Zanardelli, Giolitti ottenne il suo secondo incarico come primo ministro nel dicembre 1903 (il primo risalente al 1892). Durante questo mandato e quelli successivi (1906-1909, 1911-1914), Giolitti si adoperò per includere nel programma di governo le istanze delle opposizioni e attrarre alla collaborazione i rappresentanti di queste opposizioni interessati a realizzazioni concrete, isolando i gruppi più intransigenti (come i socialisti massimalisti, gli anarchici e i repubblicani).

Due elementi chiave della sua strategia politica furono la capacità di creare solide maggioranze parlamentari, spesso ottenute attraverso l’uso determinato dei mezzi a sua disposizione per le elezioni e i favori concessi ai candidati o ai deputati governativi, e la sua abilità nel ritirarsi temporaneamente durante momenti difficili, passando la leadership del governo a uomini di fiducia, per poi riprenderla qualche mese dopo in condizioni politiche più favorevoli.

Dopo le dimissioni di Giolitti nel marzo 1905, gli successe Alessandro Fortis, già ministro dell’Agricoltura nel governo di Pelloux, ma politicamente vicino a Giolitti. Fortis riuscì a nazionalizzare le ferrovie nonostante l’opposizione dei ferrovieri, che, considerati pubblici ufficiali dal nuovo ordinamento, si vedevano negare il diritto di sciopero.

Giolitti tornò poi al governo dal 1906 al 1909, compiendo passi fondamentali nello sviluppo della legislazione sociale. Fondò il Consiglio superiore del lavoro nel 1906, che includeva rappresentanti dei sindacati, istituì un Commissariato dell’emigrazione per l’assistenza agli emigrati e promosse un nuovo atteggiamento delle forze dell’ordine e dei tribunali nei confronti delle organizzazioni operaie e delle manifestazioni per migliorare le condizioni di lavoro. Queste misure contribuirono a promuovere il benessere dei lavoratori e a migliorare le loro condizioni di vita.

L’età giolittiana: Il coinvolgimento di Socialisti e Cattolici

Di fronte a questo atteggiamento pragmatico e sostanzialmente imparziale nei confronti del conflitto emergente tra capitale e lavoro, all’interno del Partito Socialista Italiano emerse una corrente disposta ad accettare il metodo democratico per soddisfare le aspirazioni delle masse. Tuttavia, la crescente prevalenza dell’ala rivoluzionaria all’interno del partito spinse Giolitti a modificare i suoi piani.

Giolitti si orientò quindi verso i cattolici, favorendo un processo di conciliazione lento tra Stato e Chiesa che portò alla soppressione del “Non Expedit“, ovvero la proibizione papale che impediva ai cattolici di partecipare alle elezioni politiche. Giolitti concentrò la sua attenzione soprattutto sui cattolici intransigenti, che già erano attivi nelle amministrazioni locali e nelle istituzioni sociali pubbliche. Riuscì a ottenere il sostegno dell’elettorato cattolico, sensibile alle direttive della gerarchia ecclesiastica, affinché sostenesse candidati liberali contro i candidati socialisti, a condizione che rispettassero le istituzioni religiose e non riaprissero la questione romana con la Santa Sede.

Il risultato di questa strategia fu ufficialmente sancito dal cosiddetto “patto Gentiloni” (dal nome del presidente dell’Unione elettorale cattolica), stipulato in vista delle elezioni politiche del 1913, le prime ad adottare il suffragio universale. Questo accordo portò all’elezione di 228 deputati appartenenti al partito di Giolitti.

L’età giolittiana: La politica interna

L’esito del disegno politico giolittiano si manifestò innanzitutto nella sostanziale neutralità nei conflitti di lavoro, a cui lo statista piemontese rimase sempre fedele nonostante le molte proteste conservatrici, cui seguì il riconoscimento delle organizzazioni sindacali e una vasta opera di legislazione sociale che favorirono lo sviluppo di un’élite operaia privilegiata e più pronta alla collaborazione. Aiutato, quindi, dall’imponente espansione economica che tranquillizzava i ceti abbienti e imprenditoriali, si avviò sulla strada di ampie riforme, sia nei confronti di aree specifiche del Paese sia di portata strutturale.

Tra le prime, alcuni provvedimenti a favore del Mezzogiorno, come la legge speciale per la Basilicata (1904) per la creazione di infrastrutture e la fornitura di acqua potabile, e una serie di iniziative per lo sviluppo economico della Calabria e della Sicilia (1906). Di carattere più decisamente strutturale furono invece la nazionalizzazione delle imprese assicuratrici (1912), la conversione della rendita (cioè degli interessi sui titoli del debito pubblico) dal 5 al 3,5% (1906) e l’introduzione del suffragio universale maschile (1912), in virtù del quale gli elettori politici salirono al 24%, per passare al 29% nel 1919, aprendo così alle masse una prima via di partecipazione politica alla vita dello Stato.

Tali iniziative non furono tuttavia prive di ostacoli e critiche accese durante tutta l’età giolittiana. Nel 1909, l’opposizione a una riforma tributaria portò Giolitti alle dimissioni, anche se tornò al potere nel 1911 dopo i brevi governi di Sonnino e Luzzatti. Tuttavia, nel lungo periodo, l’inserimento delle nuove forze popolari impedì al governo di mantenere il tradizionale controllo sulle elezioni e sulla Camera. L’avanzata dei socialisti, l’accentuato antiliberalismo dei nazionalisti e la presenza dei cattolici intimorirono la maggioranza dei deputati “ministeriali”, che chiesero una politica più conservatrice. La solida maggioranza parlamentare su cui Giolitti aveva sempre potuto contare venne meno, costringendolo alle dimissioni nel marzo 1914.

L’età giolittiana: La politica estera e la guerra in Libia

Giolitti, pur rispettando i vincoli imposti dalla Triplice Alleanza con la Germania e l’Austria-Ungheria, intrattenne un dialogo con la Francia, l’Inghilterra e la Russia. Tuttavia, lo stato di tensione latente con l’Austria, la crescita del movimento irredentista (che rivendicava l’appartenenza italiana di Trento e Trieste) e l’affermarsi del movimento nazionalista nel 1910 accentuarono le ambiguità della politica estera giolittiana in quegli anni.

Il passaggio del Marocco sotto il protettorato francese, che lasciava la Libia come unico territorio costiero africano non soggetto al colonialismo, portò Giolitti, con l’appoggio del re e bypassando il parlamento, a dichiarare guerra all’Impero Ottomano nel settembre 1911.

A favore del conflitto vi furono diverse ragioni. Da un lato, le pressioni economiche, poiché l’Italia aveva già una forte influenza nella regione da tempo. Dall’altro lato, vi fu una singolare convergenza di forze politiche e sociali: dai circoli cattolici ai nazionalisti, dalla borghesia che vedeva nell’occupazione della Libia una fonte di ricchezza, a numerosi rappresentanti della sinistra che consideravano l’emigrazione in Libia come una valvola di sfogo per i problemi dell’emigrazione oltreoceano, fino ai sindacalisti rivoluzionari. Le truppe italiane occuparono rapidamente le città costiere, ma la resistenza turca e la guerriglia araba furono sopraffatte solo con difficoltà negli anni successivi. Infine, nell’ottobre 1912, l’Impero Ottomano cedette ufficialmente la Libia all’Italia.

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